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PERCHÉ L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA È UN PASSO FALSO PER TUTTO IL PAESE, NON SOLO PER IL SUD
Il 2 febbraio scorso il ddl Calderoli, contenente le norme di definizione del progetto di autonomia differenziata, ha ricevuto il via libera da parte del consiglio dei ministri riportando nel dibattito pubblico una proposta che rischia di dividere il paese a metà.
Una precedente discussione sul tema risale al 2016 all’interno di un Consiglio dei Ministri in cui si discusse della richiesta da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna di ottenere uno status differente dalle altre regioni del Paese che permettesse alle suddette regioni,
detentrici di un terzo del PIL Nazionale, di trattenere percentuali più alte sulle imposte pagate da cittadini e imprese nei loro territori e di ottenere maggiore autonomia su alcune materie e competenze specifiche.
Oggi, con il ritorno della destra al Governo, il tema è ritornato ad essere al centro dell’agenda politica con il Ddl Calderoli licenziato dal Consiglio dei Ministri nelle ultime settimane. Questo disegno di legge mira a garantire l’approvazione di intese concordate tra i livelli apicali di Stato e Regioni scavalcando in toto il ruolo del Parlamento, interpellato solo per un parere non vincolante in una materia che va a stravolgere l’Italia.
L’istituzione di regioni privilegiate rispetto ad altre, infatti, non avrebbe altro effetto che aumentare le disuguaglianze interne al nostro Paese, sul piano dei servizi forniti e sulle possibilità, a livello nazionale, di disporre di sistemi di welfare.
Il tema dell’autonomia differenziata o, più in generale, quello della devoluzione di competenze dallo Stato agli enti territoriali affonda le sue radici nelle riforme degli anni ‘90 (iniziate con il primo governo Prodi e susseguitesi fino alla approvazione della modifica del titolo V della Costituzione nel 2001) che hanno modificato profondamente il nostro assetto istituzionale sino a spingersi quasi ad una forma di governo di stampo regionale (il referendum del 2006 con il quale venne bocciata la proposta di devoluzione a tutte le regioni della potestà legislativa esclusiva in alcune materie come organizzazione scolastica, polizia amministrativa regionale e locale, assistenza e organizzazione sanitaria ne è un chiaro esempio).
Alla base delle rivendicazioni della destra sta il principio secondo il quale “chi paga di più deve avere di più”, che mina profondamente il principio di sussidiarietà e di solidarietà politica, economica e sociale (art.2 Cost). Secondo questa logica, ogni individuo non vede riconosciuti i suoi diritti in quanto appartenente ad una comunità nazionale, ma in base a dove abbia avuto la fortuna/sfortuna di nascere, acuendo ancor di più disuguaglianze già esistenti e difficilmente colmabili perseguendo questa via.

In più, in questo modo, si rischierebbe di imprimere una connotazione marcatamente territoriale all’uguaglianza nella contribuzione fiscale che invece conosce solo il metro della capacità contributiva, nella nostra Costituzione (art.53).
Il riconoscimento di forme e condizioni particolari di autonomia per le Regioni ordinarie, ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, si è imposto al centro del dibattito sul rapporto tra Stato e Regioni dopo l'esito non confermativo del referendum sulla riforma
costituzionale, anche a seguito delle iniziative intraprese nel corso del 2017 dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.
L'articolo 116, terzo comma, della Costituzione prevede infatti la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario (c.d. "regionalismo differenziato" o "regionalismo asimmetrico") in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi
di poteri diversi dalle altre, ferme restando le particolari forme di cui godono le Regioni a statuto speciale (art. 116, primo comma).
L'ambito delle materie nelle quali possono essere riconosciute tali forme ulteriori di autonomia concerne tutte le materie che l'art. 117, terzo comma, attribuisce alla competenza legislativa concorrente nonché un ulteriore limitato numero di materie riservate dallo stesso art. 117 (secondo comma) alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (organizzazione della giustizia di pace, norme generali sull'istruzione, tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali).
Le fondamenta teoriche su cui si sviluppa tale disegno rimandano ad una condizione tutt’oggi estremamente attuale: la Questione Meridionale mai risolta. La risoluzione delle problematiche che vessano il Sud del Paese, infatti, non può essere immaginata se non in un’ottica nazionale. Lo sviluppo dell’intera nazione è impensabile in assenza di un piano di investimenti reali nel Mezzogiorno.
Acuire differenze già esistenti, aumentare la competizione interna, partendo però da situazioni estremamente diverse, non gioverebbe infatti a nessuno: tant’è che i lep, livelli essenziali di prestazione, sono uno strumento di definizione delle risorse di distribuzione essenziali che non consentono però una quantificazione su base storica e standard delle stesse nelle singole regioni.
Il regionalismo differenziato determina irrimediabilmente la fine del modello pubblico e di welfare nel nostro Paese, con notevoli conseguenze sul piano dell’istruzione.

Una serie di temi, fino ad oggi di materia concorrente tra Stato e Regioni, verrebbero destinati esclusivamente alle Regioni: dalla programmazione dell’offerta di istruzione alla gestione di ITS e istituti di formazione professionale, passando per la disciplina della programmazione dei percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento (ex alternanza scuola-lavoro) e di apprendistato, fino ad arrivare alla regionalizzazione dei contratti e dei concorsi sulla docenza, lasciando in capo alle stesse Regioni anche la possibilità di trattenere fondi sull’edilizia scolastica e autonomia normativa sul diritto allo studio (già esistente dalla riforma del Titolo V).
In una regione come la Puglia che ha il 27,5% dell’incidenza di povertà relativa, superando la media italiana, e in un Paese dove al Mezzogiorno più del 30% dei giovani non studia, non lavora e non è impegnato in un percorso di formazione (NEET) è evidente quanto ciò
possa risultare deleterio nei confronti delle Regioni con dei sistemi di diritto allo studio e welfare più arretrati, oltre che con dei deficit strutturali rispetto al piano della formazione: l’eliminazione di una legislazione unitaria con una conseguente deresponsabilizzazione statale e di una equa distribuzione dei fondi porterebbe inevitabilmente ad un ampliamento del divario tra istituti di serie A e istituti di serie B, con un notevole svantaggio in particolar modo per quelli del Meridione, che molto spesso già possiedono al proprio interno una serie di difficoltà dettate dalla mancanza di interventi e una gestione scellerata dei fondi a disposizione, già estremamente esigui.
Riteniamo necessario, invece, ripensare il sistema di istruzione nazionale, non in un’ottica di deresponsabilizzazione da parte dello Stato rispetto alle evidenti disuguaglianze territoriali, ma attraverso la costruzione di un percorso unitario che colmi i deficit delle aree più svantaggiate, garantendo fondi adeguati e un piano didattico e di tutele efficace ed omogeneo. In un Paese dove esistono normative sul diritto allo studio per lo più su base regionale, laddove esistano, oggi più che mai è fondamentale varare una Legge Nazionale per il diritto allo studio che garantisca uguali diritti a tutti gli studenti e le studentesse del Paese, un Fondo straordinario per il Mezzogiorno per la messa in sicurezza degli istituti, l’inclusione di tutti quei soggetti a rischio devianza e criminalità e per il rilancio dei saperi come volano di sviluppo per tutto il Paese.
E’ necessario, piuttosto, riportare al centro l’irrisolta Questione Meridionale, da intendersi come una questione nazionale alla quale fornire risposte strutturali per il rilancio dell’intero Paese. Investire nel Mezzogiorno significa colmare le distanze che esistono tra i vari territori, cercando di non creare spaccature e istanze competitive. La nostra Carta Costituzionale ci ha consegnato un Paese ispirato alla cooperazione, economica, politica e sociale: un Paese che solo attraverso gli sforzi e la partecipazione di tutti è riuscito a rialzarsi dalle macerie di una guerra. Soffiare sul fuoco delle autonomie, mascherando beceri interessi propagandistici ed economici, volti al guadagno dei pochi a discapito dei molti, significa consegnare e disegnare un’Italia a più velocità, un Paese diviso sostanzialmente in due, lacerando e impedendo, anche in futuro, uno sviluppo unitario e diffuso.

Disegnare un Paese in cui le autonomie dei territori siano divisive e non cooperative non serve alle zone più depresse del Paese (che sarebbero colpite in prima istanza), non serve nemmeno ai territori più ricchi, che sarebbero incapaci in uno scenario globalizzato di competere adeguatamente e di progredire, non serve all’Italia, che ne uscirebbe ulteriormente indebolita, dopo anni di crisi e di tagli alla spesa pubblica.
A seguito di incontri avvenuti tra le diverse organizzazioni sociali della Puglia, in testa la CGIL, ad oggi l’unica realtà nazionale ad aver preso una posizione nettamente contraria a questa riforma, è stata riscontrata la necessità di una mobilitazione sull’autonomia differenziata contro il ddl Calderoli; è essenziale avere come componente studentesca e giovanile un ruolo decisivo in questa lotta, sia per le ricadute disastrose che l'autonomia avrà sulle istituzioni formative ed educative che per gli effetti nefasti che genera sullo sviluppo futuro delle regioni meridionali.
È necessario informare e sensibilizzare la popolazione studentesca, mobilitare e coinvolgere sentiamo la responsabilità politica di scendere in piazza sabato 18 febbraio a Bari insieme al sindacato dei lavoratori e delle lavoratrici, alle associazione e alle organizzazioni sociali per
dire un fermo no all’autonomia differenziata e al ddl Calderoli.
“Ci si salva e si va avanti se si agisce insieme e non solo uno per uno” E.Berlinguer